Su un palcoscenico di Broadway Mike Tyson, grazie a uno script di sua moglie Kiki e con la regia (teatrale e documentaristica) di Spike Lee, racconta la propria (indiscutibile) versione della sua vita a un pubblico di fans in gran parte afroamericani.Ci voleva un cineasta e uomo di spettacolo come Spike Lee per cogliere le potenzialità attoriali di un amico che l'opinione pubblica ha ritenuto per decenni solo una belva assetata di sangue e uno stupratore senza possibilità di recupero. È grazie a lui che l'ex campione dei pesi massimi, finito più volte in galera, si mette a nudo in un teatro davanti ad un pubblico amico ma anche a numerose telecamere che ne riprendono le espressioni in dettaglio. Inizia a parlare a sipario chiuso e quasi imprigionato in una scena ad angolo ma si comprende subito che ha acquisito un'agilità di eloquio che fa da spia a un modo di essere che ha raggiunto un equilibrio interiore. Non risparmia nulla del proprio passato, a partire dalla madre che si prostituiva, da un padre naturale mai conosciuto e da una specie di padre che faceva il protettore della mamma. Non c'è però nessuna forma di auto commiserazione nel ritmo che la regia di Lee ha imposto a questo lungo monologo che ha il pregio di non annoiare mai e di non avere momenti di cedimento. Il pubblico in sala conosce bene la biografia del campione e in certi passaggi lo anticipa oppure ride e applaude perché ha trovato conferma a ciò che già sapeva.